“Ammazzò sette cardinali e con le loro ossa costruì sette seggiole, mentre la pelle, opportunamente conciata, ricoprì i sedili…”
Nonostante sia morto da almeno centotrent’anni, ogni volta che a Napoli si sente pronunciare il nome di Raimondo De Sangro, la gente si fa il segno della croce e i debiti scongiuri, quasi avesse a che fare con un demone di un’altra dimensione. Evidentemente, questo nobiluomo non ha lasciato ai suoi posteri un bel ricordo. Vediamo di capire perché.
La famiglia dei De Sangro o Di Sangro era molto antica e vantava ascendenze illustri: secondo una tradizione araldica, la famiglia era di origine borgognona ed era imparentata con Carlo Magno attraverso il ramo di Oderisio, conte di Sangro nel 1093. A conferma di questo è lo stemma dei Di Sangro, che è lo stesso dei discendenti dei duchi di Borgogna, che fondevano le stirpi carolingia, longobarda e normanna. Legatissima al potente Ordine Benedettino, la Casa De Sangro vanterà, oltre ad abati ed altissimi prelati, anche i santi Oderisio, Bernardo e Rosalia. Legati da vincoli di parentela con la potente casata furono anche quattro pontefici: Innocenzo III (1198-1216), Gregorio IX (1227-1241), che istituì la famigerata Santa Inquisizione (contro l’ammissione della quale nel regno di Carlo di Borbone si battè proprio il lontano discendente Raimondo De Sangro), Paolo IV Carafa (1555-1559) e Benedetto XIII (1724-1730). Proprio attraverso S. Bernardo la Casa si legò poi all’Ordine dei Cavalieri del Tempio, i Templari. Oltre ai titoli di Principi di Sansevero (un titolo che ha come primo rappresentante, nel 1587, Gianfrancesco “Cecco” De Sangro) e duchi di Torremaggiore, la famiglia contava una lista lunghissima di titoli: Principe di Castelfranco, Principe di Fondi, duca di Martina e molti altri. Raimondo nacque il 30 gennaio del 1710, terzo di tre fratelli, da Antonio De Sangro e Cecilia Caietani d’Aragona. La famiglia, però, conservò la propria unità per brevissimo tempo: la madre, infatti, morì quando il bambino aveva soltanto un anno ed anche i primi due fratelli, Paolo e Francesco, morirono in tenera età. Il padre Antonio, addolorato per la scomparsa della consorte, dopo una vita alquanto dissoluta rinunciò al titolo nobiliare, affidò il piccolo Raimondo al nonno Paolo, sesto Principe di Sansevero, e si ritirò in clausura. All’età di dieci anni, fu inviato a Roma in un seminario gesuitico per essere educato. Alla morte del nonno, alla giovane età di 16 anni, Raimondo ereditò il titolo che era stato del padre e divenne Principe di Sansevero. Quattro anni dopo, a vent’anni, con un notevole bagaglio culturale, frutto della sua preparazione enciclopedica di stampo gesuitico, il giovane riuscì finalmente a tornare nel palazzo dei suoi avi: il Palazzo Ducale Sangro, ancora esistente in piazza S. Domenico Maggiore al numero 9, a Napoli. Il letterato e politico napoletano Antonio Genovesi, nella sua Autobiografia, lo descrive come “di corta statura, di gran capo, di bello e giovanile aspetto; filosofo di spirito, molto dedito alle meccaniche; di amabilissimo e dolcissimo costume: studioso e ritirato; amante le conversazioni d’uomini di lettere. Se egli non avesse il difetto di avere troppa fantasia, per cui è portato a vedere cose poco verosimili, potrebbe passare per uno de’ perfetti filosofi”.
Intanto, il 10 maggio 1734 il diciassettenne Re Carlo III di Borbone, figlio di Filioppo V di Spagna, entrò trionfante a Napoli per prendere possesso del Regno delle due Sicilie. Nonostante la giovane età e l’apparente inesperienza, il sovrano sapeva di doversi creare una corte formata da persone fidate allo scopo di familiarizzare con il regno che si era appena conquistato. Così, subito dopo le sue nozze con Amalia Walburga di Polonia, istituì l’Ordine cavalleresco di San Gennaro, del quale fu primo Gran Maestro, al quale sarebbero appartenuti solo i sessanta membri della più antica nobiltà, scelti uno per uno dal re in persona. Il Principe di San Severo, naturalmente, fu uno dei primi ad essere chiamato. Per ringraziarlo dell’onore concesso, poiché il sovrano amava la caccia, Raimondo gli fece fabbricare dei mantelli di un tessuto impermeabile di sua invenzione: il sovrano, ovviamente, ne restò entusiasta. Il Principe De Sangro ricevette gli elogi e manifestazioni di stima in molte altre occasioni. Nel 1744, per esempio, il Principe, in qualità di colonnello del reggimento di Capitanata, liberò, alla testa delle sue truppe, la città di Velletri, che era stata occupata dall’esercito del generale austriaco Lobkowitz. Sempre per restare nel campo militare, a lui si devono le invenzioni di uno speciale cannone in lega di ferro (allora la maggior parte delle armi era di bronzo) e di un fucile a retrocarica che, di fatto, anticipò l’invenzione del Lefaucheux, l’ideatore riconosciuto della nuova arma. La tecnica e la tecnologia, però, non erano i suoi soli interessi. Nonostante l’insegnamento religioso che aveva ricevuto dei gesuiti, ben presto il giovane nobile napoletano entrò a far parte della Confraternita segreta dei Rosacroce, dove venne iniziato ad antichi riti alchemici. Da quel momento, il Principe cambiò radicalmente la propria vita dedicando tutto il suo tempo all’alchimia. Alambicchi, forni e provette riempirono così lo scantinato del suo palazzo e di notte non era raro vedere strani fumi colorati e sentire odori pestilenziali fuoriuscire dalle finestre sbarrate che davano sulla strada. Fu in quel periodo che i napoletani iniziarono a chiamarlo “stregone”.
Raimondo De Sangro, però, aveva anche un altro hobby: il bel canto. Il Principe, infatti, si dilettava a girare per i suoi vasti possedimenti in cerca di fanciulli dalla bella voce, che di soli trovava nei cori parrocchiali. Allora li “comprava” dai genitori, li faceva castrare dal suo medico di fiducia, il palermitano Giuseppe Salerno, e poi li rinchiudeva nel Conservatorio dei Poveri di Gesù Cristo, a Napoli, dove i giovani, poveri castrati venivano educati per la carriera di soprani. L’aspetto che ci interessa di questa “attività” di Raimondo De Sangro non è soltanto quello meramente canoro: il Principe, infatti, nei castrati non vedeva soltanto dei cantanti ma anche l’avvenuta creazione di quella perfezione che i Rosacroce identificavano nell’”annullamento del dualismo della separazione, nel ritorno all’androgino primordiale”. Erano, per farla breve, il frutto di un’operazione filosofico-morale.
Questo, naturalmente, non fu l’unico “campo” entro il quale il Principe versò le sue conoscenze ed il suo talento. Il prodotto più importante della sua opera nel campo dello scibile umano che non si impara sui libri di scuola è la famosa Cappella di Sansevero, la cappella di famiglia, decorata con statue ed altre opere realizzate, in parte, dallo stesso Principe. Ma di questo parleremo in seguito.
Sempre versato nelle sue pratiche di alchimista e stregone, a partire dal 1750 anche Napoli cominciò ad avere una propria loggia massonica. Raimondo, naturalmente, decise di farne parte. Visto il prestigio di cui godeva, i suoi confratelli lo nominarono immediatamente Gran Maestro di tutto il Regno delle due Sicilie.
La suggestione occultistica e alchimistica introdotta dal filone scozzese nella struttura razionalistica della massoneria di tipo inglese, faceva molta presa sulla nobiltà e sulla borghesia. E il Principe seppe sfruttarla tanto bene che ben presto nella sola Napoli si contarono un migliaio di “fratelli” suddivisi in diverse logge. Le diverse logge furono da lui unificate sotto l’unico indirizzo Scozzese.
Nel Settecento le logge prendevano il nome delle taverne dove i “muratori” si incontravano per discutere di filosofia, di essoterismo, di politica, tutto nel rispetto dell’uguaglianza e del libero pensiero. Discussioni che vertevano su queste tematiche, naturalmente, finirono per impensierire il Santo Uffizio, il tribunale dell’Inquisizione, che da tempo cercava di aprire una “sede” nel Regno delle due Sicilie. Sfruttando, dunque, queste “pericolose logge massoniche”, papa Benedetto XIV il 15 gennaio 1751 comunicò all’ambasciatore di Carlo III di essere gravemente preoccupato per il diffondersi della massoneria nel Regno e negli stessi ambienti di corte. Anche il re Borbone si era dato da fare per saperne di più su “un’unione senza l’intelligenza ed approvazione del Sovrano”. Oltre a questi motivi politici, ve ne erano altri, di carattere più religioso: proprio in quell’anno il miracolo della liquefazione del sangue di San Gennaro non si era compiuto e il popolo, aizzato da un certo padre Pepe, aveva dato vita ad un vero e proprio movimento popolare contro i massoni, considerati i responsabili del mancato prodigio. Alla luce di questo, il 28 maggio 1751 Benedetto XIV emanò la bolla Providas Romanorum Pontificum, che confermava la scomunica alla massoneria già espressa tredici anni prima dal suo predecessore, Clemente XII.
La vittima più illustre di tutti questi fatti fu, naturalmente, il Principe di San Severo, il quale, però, presentendo la tempesta che si stava per scatenare, aveva agito in anticipo. Il 26 dicembre 1750, infatti, Raimondo si era presentato al re e gli aveva consegnato la lista dei nomi degli affiliati alla sua loggia massonica, insieme con tutti i documenti relativi alle logge presenti nel Regno.
In seguito, il 2 luglio 1751, Carlo III pubblicò l’editto contro i “liberi muratori”. Il primo agosto dello stesso anno, il Principe scrisse al Papa abiurando la sua fede massonica e mettendosi sotto la sua protezione. Tradendo il segreto massonico, il Principe salvò la propria testa e la propria posizione sociale: il re, infatti, se avesse voluto fare veramente “giustizia” e rispettare le disposizioni papali, avrebbe dovuto mettere in carcere metà della sua corte. Al contrario, il sovrano si limitò a impartire una “solenne ammonizione” a tutti i massoni napoletani.
Cacciato ed odiato dalla sua antica fratellanza e dagli stessi amici di un tempo, il Principe tornò a occuparsi, per gli ultimi vent’anni della sua vita, dell’alchimia e della realizzazione della sua Cappella.
Morì la sera del 22 marzo 1771 “per malore cagionatogli dai suoi meccanici esperimenti”, leggiamo nella Autobiografia di Genovesi. Probabilmente aveva inalato o ingerito qualche sostanza tossica durante le sue lunghe notti nel laboratorio. Questa è la versione “ufficiale”. Vi è, poi, la versione mitica. Secondo una leggenda napoletana, il Principe De Sangro, durante i suoi interminabili esperimenti alchemici, avrebbe scoperto un elisir prodigioso, capace di ridare vita ai cadaveri. Volendolo sperimentare su sé stesso, diede ordine ad un suo servo, di cui si fidava ciecamente, di tagliare il suo corpo a pezzi e di collocarli in un baule, al cui interno si sarebbe dovuto svolgere il procedimento di rinascita, con metalli nobili opportunamente dosati. Alcuni parenti, però, incuriositi da quello strano contenitore entro il quale pensavano forse di trovare oggetti preziosi, vincendo le resistenze del servo, aprirono il baule prima che si completasse l’opera di ricomposizione. Tra il terrore dei presenti, il corpo del principe venne fuori con gli organi ancora soltanto parzialmente collegati tra loro: l’elisir non aveva completato l’opera di ricostruzione. Rapidamente, dopo un urlo di dolore sovraumano, quella larva di corpo si disfece e i vari pezzi ricaddero nel baule.
La leggenda di Raimondo De Sangro, però, non finisce qui. Nel 1790, di fronte al tribunale romano dell’Inquisizione, il conte Cagliostro, già membro della confraternita dei Rosacroce, affermò che tutte le sue conoscenze alchemiche gli furono insegnate a Napoli da “un principe molto amante della chimica”. Quale sia il nome di questo principe, non ci è dato saperlo, visto che i verbali del processo sono tenuti nel più stretto riserbo da parte della Reverenda Camera Apostolica. Comunque sia, i giudici non vollero credere a Cagliostro e lo condannarono all’internamento a vita nella rocca di San Leo. A quanto pare, dunque, il Principe Raimondo De Sangro fu il maestro del Conte di Cagliostro.
LA CAPPELLA SANSEVERO DEI SANGRO
Delle varie attività di Raimondo De Sangro si è detto tanto. Fu valente soldato: abbiamo parlato della sua conquista della città di Velletri; oltre a questo, redasse un trattato militare sull’impiego della fanteria che gli procurò le lodi di Federico II di Prussia. Fu scienziato pratico: inventò un nuovo tipo di archibugio ed un sistema che permetteva di sparare un colpo ogni quattro secondi; progettò una macchina tipografica per la stampa contemporanea di più colori; studiò un nuovo modo per filare la seta; mise a punto una carrozza marina; costruì una macchina idraulica capace di far salire l’acqua a qualunque altezza; ideò una carrozza con cavalli di legno che può camminare per terra e per mare, grazie ad una particolare macchina collocata al suo interno; mise a punto una “carta ignifuga”, con un lato di lana ed uno di seta. Fu filologo: portò a termine uno studio accuratissimo sull’alfabeto “cromatico” dei peruviani; parlava correntemente tutte le lingue europee, l’Arabo e l’Ebraico. Fu, naturalmente, chimico: produsse reagenti che indurivano sostanze molli; ideò alcuni sistemi per colorare il marmo bianco, dandogli un incredibile effetto e facendolo sembrare una pietra preziosa; studiò anche il processo inverso, riuscendo a decolorare i lapislazzuli; inventò procedimenti che rendevano “a freddo” plastici il ferro e altri metalli. Fu astronomo: sul ponte che collegava il suo palazzo alla cappella, andato distrutto nel 1889, collocò un orologio animato a forma di drago, dotato di un particolare impianto di carillon a campane, che indicava ore, minuti, giorni della settimana, nomi dei mesi e fasi lunari. Oltre a tutto questo, c’è chi gli attribuisce, con 150 anni d’anticipo sui coniugi Curie, la scoperta della radioattività naturale. Tale scoperta sarebbe contenuta in una lettera, che è stata sottoposta a perizia calligrafica e ritenuta autentica, datata 14 novembre 1763 ed indirizzata al barone H. Theodor Tschudy (cadetto del reggimento di Svizzeri al servizio del Re di Napoli ed esponente della Massoneria), grande amico di Raimondo. In questo testo vi sono dei passaggi scritti attraverso un codice a traslitterazione di stampo Rosacruciano: in esso il Principe parla di un “raggio-attivo” proveniente da un minerale, la “pechbenda”. Tale minerale, dice il Principe, aveva un effetto mortale sui viventi, come provato dalla sperimentazione sulle farfalle e si poteva “schermare” unicamente con il piombo (“Saturno). Ecco uno stralcio della lettera:
Allorquando ebbi incontro con Supremo Fr. S. Germain, per Gabalì a lui mostrai la scoperta di quelle sostanze (che sapete) cristalline luminescenti al buio di color pece e d’olive (ch’ebbi in gentile dono da S. M. di Prussina) ch’io purgai da piombo, silicio, rame e varie impurità. Le quali subirono in crogiolo concentrato nei vari cammini alchemici. Esse procurarono la morte di farfalle chiuse in ampolle con coverchi forati. Infrapponendo lastra di Piombo tra ampolle e sostanze, le farfalle non morirono. Saturno bloccava raggio e affluvio mortali. Il fenomeno è al pari di raggio-attivo, simile a quello osservasi nel Sole.
Il “manifesto” di tutte queste eccezionali capacità, però, è rappresentato dalla Cappella dei Sansevero dei Sangro, la “Santa Maria della Pietà dei Sangro”, ovvero “La Pietatella”.
Fu costruita come cappella sepolcrale di quell’illustre famiglia da Giovanni Francesco nel 1590, ma quasi tutto ciò che vediamo oggi risale al rifacimento del figlio Alessandro (1631) e soprattutto ai restauri e alle decorazioni del famoso pronipote Raimondo (1744-1766). Un cavalcavia l’univa alla dimora di famiglia: ma, tanto per rientrare nei ranghi del mistero che aleggia intorno a cappella e famiglia, questo crollò, senza una causa apparente, nel 1889. La cappella è un rettangolo abbastanza vasto: più che una cappella, si tratta di una chiesa, in realtà, con un presbiterio nel fondo. La struttura è semplice e armoniosa, la decorazione è di una ricchezza travolgente, sia per i fastosissimi affreschi della volta, di Francesco Maria Russo, realizzati con colori procurati dallo stesso Raimondo, che conservano un’incredibile luce, sia per l’apparato di marmi, stucchi, oro che la rivestono. Le decorazioni furono realizzate da artisti come Queirolo, Corradini, Sammartino, Celebrano, Persico, F. M. Russo e C. Amalfi. Questi artisti, però, non idearono le opere in essa contenute, ma si limitarono ad eseguire la particolare iconografia ideata dal principe, che fornì anche marmi e colori “alchemici”. Scrive Gennaro Aspreno Galante nel 1872: “Egli costruì il cornicione ed i capitelli dei pilastri con un mastice da lui formato che parea madreperla”. Le bellissime sculture della Cappella Sansevero, che ornano i sepolcri degli antenati, soprattutto dei genitori del Principe, sono perfette espressioni di una simbologia massonica-templare-rosacrociana di tale pregnanza ed impatto visivo che lasciano, anche nel visitatore profano, l’impronta indelebile di un “messaggio” che, seppur non recepisce, si “avverte” con forza.
Tutte le opere scultoree sono di grande bellezza ma le tre realizzazioni che hanno dato fama storica alla Cappella sono “La Pudicizia”, “Il Disinganno” ed il “Cristo Velato”. Vediamo di analizzarle.
La Pudicizia è il nome improprio dato al monumento funebre di Cecilia Gaetani dell’Aquila d’Aragona, madre di don Raimondo, morta in giovane età (morte simboleggiata dalla lapide spezzata); il Corradini, per esprimere il concetto voluto dal principe della “pudicizia velata”, scolpì una bellissima donna nuda coperta da un velo trasparente che la rende del tutto “impudica” per la generosità delle forme opulente che giocano con le pieghe del leggerissimo tessuto, dando l’impressione “tattile” di un vero velo poggiato. Questo artificio scultoreo, già usato dai greci della classicità per le veneri e per le vittorie alate, piaceva molto a Raimondo per l’insito significato del “velare” e “svelare”, caro agli iniziati delle scienze occulte ed ermetiche. Sarà usato, infatti, anche nel prodigioso “Cristo” del Sammartino. L’opera fu terminata nel 1751 e sulla base presenta un “Noli me tangere”, in bassorilievo, che ripropone sempre la tematica del Pudore.
Il secondo monumento funebre che analizzeremo, “Il Disinganno”, è quello di Antonio de Sangro, padre del principe, morto nel 1757, che, come detto, sconvolto dal grande dolore per la prematura morte della moglie, si abbandonò ad una vita errabonda ed inquieta della quale scoperto “l’inganno” si ritirò a vita monastica abbandonando le cose del mondo ed il figlioletto Raimondo al padre Paolo. Francesco Queirolo, sempre su suggerimento di don Raimondo, rappresentò un uomo (don Antonio) che si libera di una rete che lo avviluppa, lavorando, si dice, in un solo blocco marmoreo, con una perizia da orafo nell’estrema difficoltà di realizzare la rete marmorea avviluppata alla figura interna. Un genietto alato, che porta sul capo una coroncina “fiammeggiante” e che poggia su di un globo ed un libro, simboleggia l’ingegno “disingannato” che aiuta l’uomo a districarsi dalla schiavitù della rete viziosa. Il bassorilievo della base Cristo che ridona la vista al cieco riconferma il concetto della ritrovata verità.
Il Cristo Velato poi si può ritenere l’opera sintesi di tutta la cappella. Ha sempre colpito l’immaginazione dei visitatori con la forza di una suggestione che non subisce variazioni da secoli. Il principe di Sansevero aveva commissionato il grande “Cristo Morto” con i simboli della Passione (martello, chiodi, tenaglia) al Corradini, ma essendo morto nel 1752, il suo bozzetto di terracotta, oggi al museo di S. Martino, fu splendidamente realizzato in marmo dal giovane scultore napoletano Giuseppe Sammartino, che cominciò così la sua luminosa carriera proprio con quest’opera, del 1753. Ciò che colpisce maggiormente di quest’opera è l’incredibile qualità del velo, così realistico da sembrare di tessuto anziché di marmo. Il modo in cui questo sia stato realizzato rimane un mistero, visto che molti scultori moderni, pur con le attuali conoscenze tecniche, non saprebbero riprodurlo con tale perfezione. Alcuni studiosi sostengono che i veli siano stati ottenuti “cristallizzando una soluzione basica di idrato di calcio o calce spenta” . Il processo sarebbe stato il seguente: la statua veniva posta in una vasca e ricoperta da un velo, o da una rete, bagnati; su questi veniva versato latte di calce diluito e sul liquido veniva spruzzato ossido di carbonio proveniente da un forno a carbone. In questo modo si otterrebbe una precipitazione di carbonato di calcio, e cioè marmo, che si unirebbe al resto della statua. Finora, però, nessuno ha dimostrato con i fatti che questa teoria sia quella giusta. Ma durante l’ultima Guerra Mondiale, un milite tedesco, volendo dimostrare l’assurdità dei fatti, spaccò con il calcio del suo fucile una parte del “Cristo Velato”, mostrando che al suo interno non vi è altro che marmo. La verità su questa statua, però, non è ancora stata pronunciata.
Nell’Archivio Notarile di Napoli è stato rinvenuto il contratto tra il Principe e Sammartino: in questo contratto egli si impegna ad eseguire l’opera di una “statua raffigurante Nostro Signore Morto al Naturale da porre situata nella cappella Gentilizia del Principe, cioè un Cristo Velato steso sopra un materasso che sta sopra un panneggio e appoggia la testa su due cuscini, apprè del medesimo vi stanno scolpiti una Corona di spine tre chiodi e una tenaglia”. Il Principe si impegnava a procurare il marmo e realizzare una “Sindone, una tela tessuta la quale dovrà essere depositata sovra la scultura, dopo che il Principe l’haverà lavorata secondo sua propria creazione; e cioè una deposizione di strato minutioso di marmo composito in grana finissima sovrapposta al telo. Il quale strato di marmo dell’idea del sig. Principe, farà apparire per la sua finezza il sembiante di Nostro Signore dinotante come fosse scolpito di tutto con la statua”. Il Sammartino si impegnava, inoltre, a ripulire tale “Sindone” per renderla un tutt’uno con la statua stessa e a non svelare a nessuno la “maniera escogitata dal Principe per la Sindone ricoorente la statua”. Più avanti, sulla destra, dopo un arco, troviamo poi la lapide tombale dello stesso Principe.
Si tratta di una grande lastra di marmo interamente ricoperta da una scritta in latino, anche questa opera di Raimondo, i cui caratteri sono tutti in rilievo.
Eccone una parte:
Uomo mirabile, nato a tutto osare, Raimondo di Sangro, Capo di tutta la sua famiglia, Principe di San Severo, Duca di Torremaggiore […] illustre nelle scienze matematiche e filosofiche, insuperabile nell’indagare i reconditi misteri della natura, esimio e dotto nei trattati e nel comando della tattica militare terrestre e, per questo, molto apprezzato dal suo Re e da Federico di Prussica [… imitando l’innata pietà a lui pervenuta per l’ascendenza di Carlo Magno imperatore, restaurò a sue spese e con la sua saggezza questo tempio [...] AFFINCHÈ NESSUNA ETÀ LO DIMENTICHI.
Il corpo del Principe, però, non è nel sarcofago: qualcuno, chissà quando e perché, lo ha trafugato. Nel maggio 1990 dei ladri trafugarono un dipinto ovale con l’effigie del principe, che era collocato tra due putti in gesso vicino all’altare. L’opera venne recuperata nel luglio 1991 e ci si accorse che qualcuno aveva tentato di “restaurarla” di nascosto: purtroppo per l’ignoto restauratore, l’esecutore del dipinto aveva usato dei colori talmente particolari (detti “oloidrici”), creati con una formula ideata dallo stesso Raimondo, da rendere inefficace qualsiasi tentativo. Oltre a queste bellezze dell’arte scultorea, la Cappella contiene altre due “meraviglie”, inquietanti ed affascinanti. Si tratta delle cosiddette “Macchine Anatomiche”.
Si tratta di due corpi umani, di un uomo ed una donna, totalmente scarnificati, nei quali è messo in evidenza l’intero sistema circolatorio costituito da arterie, vene e capillari. Sembrano la magica trasposizione di tavole anatomiche prelevate da un testo di medicina. Vediamole nel dettaglio.
Lo scheletro della donna ha il braccio destro alzato ed i bulbi oculari interi, quasi ancora lucenti, in un’espressione di vero terrore. Le ossa sono interamente rivestite dal fittissimo sistema arterioso e venoso che, metallizzandosi, ha preservato anche gli organi più importanti. Il cuore è intero; nella bocca si possono riconoscere persino i vasi sanguigni della lingua. Era incinta: nel ventre si può notare la placenta aperta dalla quale fuoriesce l’intestino ombelicale che andava a congiungersi con il feto, che è stato recentemente rubato. Così come quello della madre, anche il cranio di questo feto poteva aprirsi per vedere all’interno la complessa rete dei vasi sanguigni.
Il corpo dell’uomo ha più o meno le stesse caratteristiche. Le braccia, però, in questo caso scendono lungo il tronco.
Resta da capire come il Principe sia riuscito a realizzare due “oggetti” come questi, che, va specificato, non sono sculture. Leggendo la Breve nota di quel che si vede in casa del Principe di San Severo, edita per la prima volta nel 1766, e quindi quasi certamente scritta dallo stesso Principe, si legge che nella Cappella “si veggono due Macchine Anatomiche, o, per meglio dire, due scheletri d’un Maschio, e d’una femmina, ne’ quali si osservano tutte le vene, e tutte le arterie de’ Corpi umani, fatte per iniezione, che, per essere tutt’intieri, e, per la diligenza, con cui sono stati lavorati, si possono dire singolari in Europa”. Alla luce delle attuali conoscenze mediche, si potrebbe pensare che il diabolico Raimondo, sempre con l’assistenza del medico Giuseppe Salerno, abbia iniettato nelle vene delle due malcapitate cavie, probabilmente due suoi servi, una sostanza che, entrando in circolo, abbia progressivamente bloccato la rete e la circolazione sanguigna fino alla morte dei soggetti. A questo punto, la misteriosa sostanza avrebbe “metallizzato” vene e arterie preservandole dalla successiva decomposizione. Il Principe, poi, deve aver aspettato che pelle e carne si decomponessero completamente prima di ottenere quelle che lui, con tanta pomposità, chiamava le “macchine anatomiche”. E’ una spiegazione logica e, in effetti, l’unica possibile: perché il liquido potesse raggiungere tutti i vasi sanguigni, infatti, dalla grande vena aorta al piccolo capillare del piede, sarebbe stato necessario che il flusso di sangue fosse ancora attivo, all’interno dei corpi. Se questa è la spiegazione, possiamo allora spiegarci la strana posizione dei due corpi. Osservandoli con attenzione, si potrebbe pensare che entrambi siano stati legati mani e piedi ad una specie di tavolo operatorio e che solo la donna, prima di morire, sia riuscita a liberare il braccio destro che ha agitato, cercando scampo, fino a quando la sua circolazione sanguigna non si è bloccata.
I dubbi, comunque, restano. Infatti, nel ‘700 la siringa ipodermica, necessaria per l’iniezione, non esisteva ancora, essendo stata inventata quasi un secolo dopo dal chirurgo Carlo Gabriele Pravaz (1791-1853) di Lione. Questo è proprio l’argomento usato dai “sostenitori” del Principe che, rifiutando il fatto che l’uomo e la donna possano essere stati sottoposti da vivi a quell’orribile esperimento dal loro “idolo”, sostengono, invece, che quegli scheletri siano soltanto povere ossa ricoperte da una rete artificiale di vasi sanguigni. Tuttavia, un esame compiuto negli anni Cinquanta del ‘900 ha rivelato “che l’intero sistema di vasi sanguigni, all’analisi, si è rivelato metallizzato, cioè impregnato e tenuto in sesto da metalli in esso depositati”.
Questa la vita e l’opera dei Raimondo De Sangro, Principe di Sansevero .